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Dott.ssa Serena Ricò
psicologa e psicoterapeuta

martedì 9 ottobre 2012

Silvano Benvenuto, L'infermiere che scappava con i "matti"

 
Mi è capitato di leggere questo meraviglioso articolo apparso sul Corriere Mercantile in data 19 Agosto 2012, scritto dal giornalista Andrea Ferro che ha raccontato la storia di un infermiere, Silvano Benvenuto, che ha dedicato la sua attività lavorativa a sostegno dei malati psichiatrici cercando di instaurare con loro un rapporto "umano" che andasse al di là di quello professionale tra paziente ed operatore.

Volevo condividerlo con voi....







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mercoledì 25 aprile 2012

25 Aprile 2012

 
La giornata del 25 Aprile rappresenta la festa della Liberazione e della Democrazia. Questa ricorrenza ci insegna che, grazie alla partecipazione ed al sacrificio, è possibile costruire un mondo diverso.
La resistenza dovrebbe diventare una pratica quotidiana che non si esaurisce nel ricordo degli eroi del passato ma che è di stimolo a sviluppare anticorpi che contrastino un sistema socio-culturale sempre più piatto e arido.

Di seguito riporto alcune immagini della bellissima festa organizzata dall' A.N.P.I (sezione di Genova Pegli) in Val Varenna in occasione della celebrazione della festa della Liberazione.











 








 




























 

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mercoledì 11 aprile 2012

Conflitto socio-epocale

 
Oggi viviamo in una società in crisi in cui le regole, le cause e i modi di agire sono messi in discussione.
“Per dirla in termini più chiari, viviamo in un’epoca dominata da quelle che Spinoza chiamava le “passioni tristi”. Con questa espressione il filosofo non si riferiva alla tristezza del pianto, ma all’impotenza e alla disgregazione […] il XX secolo ha segnato la fine dell’ideale positivista gettando gli uomini nell’incertezza. […] A partire dagli anni ’70, che segnano l’inizio della crisi, almeno due o tre generazioni hanno vissuto la frattura storica […] ovvero quello che abbiamo definito mutamento di segno del futuro, il passaggio dal
futuro-promessa al futuro-minaccia (Benasayag, Schmit 2004)”. Mentre la scienza proclama successi e profitti, paradossalmente gli adulti, ma soprattutto gli adolescenti, stanno male. Il disagio dei giovani di oggi va ricondotto, secondo Benasayag e Schmit, alla sua caratterizzazione storica, che mostra tratti specifici non confondibili con quello di altre epoche. Il tratto particolare della crisi antropologica che stiamo vivendo è dato dall’idea dell’impossibilità dell’azione di fronte alla complessità della realtà del mondo. Quindi l’idea ottimistica, data dal pensare possibile l’azione, viene paragonata ad una sciocchezza, chi pensa di poter
agire viene considerato fuori dalla realtà.

La crisi di ordine culturale va ad incidere sulle relazioni tra adulti e ragazzi facendo perdere senso ai principi che per molto tempo hanno consentito agli adulti di educare e proteggere i giovani. L’educazione ai giovani non è più un invito a desiderare il mondo. Oggi si tende ad educare in funzione di una minaccia, si insegna a temere il mondo, ad uscire indenni da pericoli incombenti. Ogni sapere deve essere “utile”, ogni insegnamento deve “servire a qualcosa”. Anche nel campo del sapere, la logica prevalente diventa quella dell’utilitarismo e dell’individualismo.  Ciò che è andato in crisi, con il cambiamento che ha investito le ultime generazioni, è il principio d’autorità. Il principio d’autorità, che fondava fino a pochi decenni fa le relazioni educative e di accudimento, ha rappresentato per lungo tempo una sorta di criterio guida, in base al quale era chiaro che un individuo rappresentava l’autorità e l’altro ubbidiva. Allo stesso tempo, però, entrambi ubbidivano ad un principio condiviso che predeterminava dall’esterno la relazione in vista di un obiettivo
comune: “io ti ubbidisco perché tu rappresenti per me l’invito a dirigersi verso questo obiettivo comune, perché so che questa ubbidienza ti ha permesso di diventare l’adulto che sei oggi, come io lo sarò domani, in una società dal futuro garantito” (Benasayag, Schmit 2004).

D’altro canto l’anteriorità – l’anzianità, il preesistere dell’adulto rispetto al giovane – rappresentava automaticamente una fonte di autorità, non perché l’adulto fosse dotato di particolari qualità personali, ma perché incarnava la possibilità di trasmissione della cultura. Questo principio di autorità-anteriorità non escludeva la novità e il cambiamento: dava, però, un ordine all’evoluzione attraverso la trasmissione e la responsabilità comune, assunte da tutti quale garanzia della sopravvivenza della comunità. Un primo corollario dell’attuale crisi dell’autorità è il prolungamento dell’adolescenza. In una società stabile la “crisi dell’adolescenza” finisce quando il giovane accetta la sua appartenenza alla società come una responsabilità. Il prolungamento dell’adolescenza può dunque essere letto come un sintomo della profonda instabilità della società attuale. Sembra che chi entra nella crisi adolescenziale non possa uscirne perché la crisi personale si scontra con quella della cultura, in quanto la società non è più in grado di offrire all’adolescente il contesto protettivo e strutturante che questa crisi esige.

Una seconda conseguenza è che oggi sembra non esistere più una differenza, un’asimmetria in grado di  determinare a priori i ruoli dei giovani e degli adulti e di dare al tempo stesso una cornice alla loro relazione. Oggi gli adulti (i genitori, gli insegnanti) non sembrano rappresentare più un simbolo sufficientemente forte per i giovani. La relazione giovani-adulti tende ad essere percepita come simmetrica. D’altro canto gli adulti stessi sono portatori di una critica all’autorità, poiché, al contrario dei loro predecessori, non sono più convinti di preparare per i giovani un futuro pieno di promesse.

Cosa comporta tale simmetria? Le relazioni genitoriali si trasformano in rapporti amicali, gli esempi educativi in dialettica confidenziale, le definizioni autorevoli in contrattazioni progettuali. Le simmetria tra genitori e figli, tra insegnanti e studenti è disfunzionale in quanto nessuno rivendica un proprio ruolo responsabile.
Nel primo contesto, l’autorità necessaria viene sostituita da mistificanti consultazioni paritarie; nel secondo, la cultura come trasmissione di valori e di idee viene sostituita dalla trasmissione di saperi utili. In un gioco di seduzioni e ricatti, la conseguenza è comunque una deriva dei principi.

Quali sono i rischi – se ce sono - di questa nuova simmetria genitori-figli, adulti-ragazzi? Secondo i due autori, un primo rischio è quello di offuscare la percezione dei bisogni dei più giovani in funzione della loro età, cioè della loro realtà effettiva. Sempre più spesso vengono richieste consulenze psicologiche per bambini anche piccoli descritti come tirannici e indomabili proprio perché questi genitori tendono a trattare il bambino come un loro pari, che occorre persuadere, con il quale bisogna evitare di entrare in conflitto. Ma questa loro difficoltà ad assumere una posizione “contenitiva” può lasciare il bambino solo di fronte alle proprie pulsioni e all’ansia che ne deriva.

La crisi del principio di autorità, inoltre, non significa automaticamente una messa in discussione dell’autoritarismo, che al contrario può venire rafforzato. Un’altra caratteristica della società attuale è infatti quella di oscillare costantemente tra le due tentazioni della seduzione di tipo commerciale e della coercizione: cioè tra relazioni – in entrambi i casi – prioritariamente basate su rapporti di forza. La sola idea di dire “mi devi ascoltare e rispettare semplicemente perché io sono responsabile di questa relazione” sembra ormai inammissibile. In nome della presunta libertà individuale il figlio – o l’allievo – assumono il ruolo di “clienti” che accettano o rifiutano ciò che l’adulto “venditore” propone loro. Quando questa strategia fallisce, non rimane altra via che quella di ricorrere alla coercizione.

La perdita di ideali della nostra società e il diffondersi di sentimenti di insicurezza stanno comportando anche una inversione di tendenza nel modo di educare. Una serie di riflessi sociali di difesa stanno sottraendo spazio al pensiero e all’elaborazione concettuale. L’educazione dei giovani non è più un invito a desiderare il mondo. Oggi si tende ad educare in funzione di una minaccia, si insegna a temere il mondo, a uscire indenni da pericoli incombenti. Ogni sapere deve essere “utile”, ogni insegnamento deve “servire a qualcosa”. Anche nel campo del sapere, la logica prevalente diventa quella dell’utilitarismo e dell’individualismo.

Il libro “Elogio del conflitto”(2008) di Benasayag e Del Rey fa un’ulteriore constatazione circa l’attuale società ovvero che nella nostra società i conflitti vengono rimossi. Indipendentemente dai tipi di conflitti sociali che esistono, molto spesso il potere non accetta l’altro punto di vista, non accetta il conflitto e si trincera dietro frasi del tipo “la gente non ha capito la riforma”, come se non si fosse stati abbastanza didattici nei confronti della popolazione. Siamo quindi di fronte ad un unico comportamentoche viene tollerato, e tutto ciò va avanti con il controllo e la sorveglianza. Viene negata la possibilità di un altro punto di vista valido nella società ed è quindi possibile solo una comunicazione distorta, non un punto di vista diverso.
Questo è un esempio che ci illumina sulla difficoltà di oggi a far coesistere pensieri contrari; sembra che ciò che diceva il filosofo Eraclito circa la dottrina dell’unità dei contrari non sia realizzabile. Eraclito pensava che i conflitti non possano essere eliminati, perché nel conflitto c’è qualcosa di necessario per la vita. Ogni vita infatti è costituita da alcuni conflitti che non devono essere confusi con degli scontri, perché uno scontro presuppone già una messa in atto del conflitto. Ma il conflitto non è lo scontro, è una realtà molto più profonda e indefinibile, nella quale ogni totalità è fatta di elementi in tensione gli uni con gli altri. Se si vogliono sopprimere le tensioni e i legami si sopprime la totalità e quindi la vita. Secondo Eraclito, infatti, niente esiste se allo stesso tempo non esiste anche il suo opposto. In questa dualità, questa guerra fra i contrari in superficie, ma armonia in profondità, Eraclito vedeva quello che lui definiva il logos, la legge universale della Natura.

Un’altra realtà che mostra questo andamento verso la rimozione del conflitto è la tendenza ad allontanare o eliminare le diversità culturali, come ad esempio per quanto riguarda la cultura dei non udenti, che non è riconosciuta dalla società. I non udenti non sono solo persone portatrici di handicap, ma sono persone che hanno anche costruito una cultura. In nome del bene viene permesso ai non udenti di sentire, quindi ci sono sempre meno sordi che nascono e restano tali. In sostanza c’è un unico modo di essere che viene accettato.
La rimozione dei conflitti porta ad una logica di separazione e in alcuni casi alla logica dello scontro. Si parte dalle grandi separazioni come Nord e Sud del mondo con la creazione di muri, con l’idealizzazione dell’immigrazione da un lato e la sua criminalizzazione dall’altro e si arriva alle piccole separazioni tra il sé ideale e quel che non è riconosciuto come sé, parti di sé che diventano non - sé. La logica della rimozione del conflitto in senso filosofico si riduce nella negazione dell’altro, non c’è più alterità sia in senso filosofico, sociale che psicologico. Secondo Benasayag, oggi assistiamo al tramonto dell’epoca dell’uomo, ovvero
l’epoca storica in cui si pensava che l’uomo avesse tutto sotto controllo e che lui fosse il soggetto principale della storia. Il futuro era considerato come progresso dell’umanità, che non avrebbe guardato più verso il passato abbandonando la tradizione. C’era una promessa: separarsi dalla parte oscura, ossia da tutto ciò che è miseria, ignoranza, malattia, irrazionale e tutto ciò che sfugge al controllo della ragione.

Si pensava che sarebbero scomparse la follia, le guerre, le ingiustizie, ma così non è stato in quanto il XX secolo è stato il più nero dell’umanità. Oggi siamo in una fase di crisi, in una fase che può essere considerata come la fine di un mondo, di quel mondo che aveva creduto nel progresso dell’uomo e nella sua sacralità.
L’umanismo, che si basava sulla separazione dell’uomo dalla natura e gli dava una dignità superiore agli altri esseri viventi, ha realizzato un progresso morale, scientifico e tecnico, ma questo ciclo e la figura che ne era alla base sono superati. Oggi l’uomo è diventato una risorsa a servizio dei vari sistemi, in particolar modo quello economico e anche la sanità, come l’ambito educativo, non sono più al servizio dell’uomo, ma
al servizio dell’efficienza, in senso produttivo, che è l’obiettivo principale. La logica dell’efficienza è diventata il nuovo principio della realtà . Dietro l’utilitarismo che avanza c’è l’uomo descritto un secolo fa da Robert Musil nel libro “L’uomo senza qualità”. Oggi l’essere umano è visto come una superficie liscia su cui vengono incollate competenze che vengono ritenute positive dal sistema, competenze che hanno la caratteristica della flessibilità per poter essere eliminate quando non sono più necessarie; ma l’uomo così diventa una macchina, che può essere modellata e che si trasforma da organismo ad un semplice aggregato. Questa è la visione dell’uomo che si va costruendo, perciò diventa essenziale lottare contro questo modello e proporne un altro.

Proprio assumendo i conflitti possiamo lottare contro l’utilitarismo che avanza. Prima di tutto perché il conflitto rimosso sfocia nella barbarie mentre il conflitto riconosciuto è un conflitto acuto che può  autoregolarsi. Secondariamente perché la vita è fatta di conflitti, riprendendo le parole di Eraclito possiamo dire che il conflitto è padre di tutto, è all’origine della vita stessa. Il conflitto non è semplicemente essere contro, il conflitto è la molteplicità dell’essere. Il conflitto è interno a noi stessi, è nel rapporto con l’altro, è in rapporto alla vita. Per aiutare le famiglie, le persone in generale, per comprendere anche la situazione
geopolitica che si sta modificando, è necessario, prendere in seria considerazione il tema del conflitto. Per far questo bisogna considerare l’esistenza dentro e fuori di noi della “molteplicità”. Solo sviluppando questa molteplicità forse si troveranno delle soluzioni per le varie situazioni.

Articolo di Serena Ricò
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Genova... città multiculturale

Genova da sempre, in particolare nel centro storico, ha assorbito i flussi migratori più vari e ha rappresentato un punto di incontro tra culture diverse. Il termine stesso “Genova” lo rivela, esso ha un’origine incerta: da genua fondata da giano il dio bifronte, oppure janua che significa porta, oppure zena dal greco xenos (straniero) ad indicare una città di stranieri. Genova in effetti si può considerare come una porta spalancata tra due diverse concezioni della vita, quella più stabile e conservatrice legata alla terra, e quella più dinamica e sensibile al cambiamento, legata alle esperienze che vengono dal mare, dai mondi lontani che il mare unisce, dalle diverse genti straniere che il mare mette in comunicazione (Nathan Zazzu, 1983).
Il tessuto sociale genovese e, di riflesso, anche la scuola stanno assumendo una fisionomia marcatamente multietnica; pertanto diventa di fondamentale importanza saper integrare le varie culture, nel rispetto e nella valorizzazione delle differenze. Il numero di alunni stranieri in questa città è in continuo aumento e in continua evoluzione, poiché le richieste di frequenza giungono anche durante tutto il corso dell’anno. 

L’immigrazione sta diventando un fenomeno strutturale, destinato ad incidere sul tessuto sociale ed economico del nostro Paese in maniera continua e profonda. Il grande filosofo Kant (1971) definì così l’immigrazione: “Un diritto di visita, spettante a tutti gli uomini, cioè di entrare a fare parte delle società in virtù del diritto comune al possesso della superficie della terra, sulla quale, essendo sferica, gli uomini non possono disperdersi, isolandosi all’infinito, ma devono da ultimo rassegnarsi ad incontrarsi e a coesistere” (pag. 301).
Soprattutto in   passato, l’integrazione degli immigrati è stata considerata come un processo di assimilazione alla nuova cultura, ossia l’assunzione, da parte delle minoranze, dei valori, delle norme e dei modelli di comportamento del gruppo maggioritario, fino a perdere i propri marcatori etnici distintivi (Zanfrini, 2004). Solo attraverso tale omologazione, e la rinuncia alle proprie diversità razziali, religiose e linguistiche, gli immigrati potevano trasformarsi in membri effettivi della nuova società. Lo sforzo di annullare ogni diversità era però vano e inaccettabile per l’individuo moderno, geloso della sua differenza; da qui il fallimento di questo tipo di “integrazione”. L’ottica assimilazionistica ha come obiettivo: una società di maggiori dimensioni ma identica a se stessa prima dell’inizio del processo di assimilazione (Scidà, 2000).




Negli ultimi anni, invece, si è diffuso il rispetto per la differenza e il diritto al riconoscimento dell’identità culturale degli immigrati. L’integrazione culturale, che prevede il fiorire di diverse culture all’interno dello stato democratico, è considerata come accettazione della “diversità” e tutela dell’identità. Non si ha più come obiettivo l’uguaglianza, ma la parità: si tratta dunque di stabilire un dialogo tra persone avendo due identità ben distinte, persone che si riconoscono come tali (vale a dire come diverse nelle loro identità) e che sono fiere di esserlo (Samir, 1992). Sempre più vi sono incontri e relazioni interculturali, da cui nascono nuove idee e nuovi modi di vedere la realtà. Questo è il vero pluralismo culturale.
Il rischio che si corre è quello di raggiungere soltanto un’integrazione strutturale, in cui la tutela delle minoranze etniche conduca in realtà alla loro emarginazione e/o esclusione,  fallendo il suo obiettivo. Viene, così, ridotta la partecipazione degli individui solo a determinate sfere della società, di solito quelle lavorative, escludendo l’accesso alle altre aree. Altri problemi riguardano le crescenti spese sociali per far fronte ai nuovi bisogni, il diffondersi della conflittualità interetnica, la marginalità sociale ecc. Degrado, povertà e disoccupazione sono i tratti tipici dei ghetti in cui gli immigrati sono lasciati. Baumann (1998) definisce questi immigrati “localizzati per forza”.
Un ruolo importante è svolto dalle istituzioni, dai mass media, dalla normativa a riguardo e dalla scuola, che ha come mandato istituzionale l’educazione culturale e sociale dei futuri cittadini ed è quindi l’ambito sociale più adatto per costruire un nuovo tipo di cittadinanza (Zincone, 2001). Quest‘ultima agenzia educativa, deve innanzitutto favorire l’accoglienza e l’integrazione dei piccoli immigrati che si sentono, o sono fatti sentire “diversi”.

Tale integrazione, intesa come un processo lungo e articolato, deve favorire l’accoglienza dell’alunno straniero e il raggiungimento di alcune abilità (ad esempio quelle linguistiche). Altri obiettivi importanti sono: la creazione di relazioni tra l’alunno straniero, i compagni, gli adulti e la scuola (considerando l’incontro come il terreno privilegiato dell’intervento educativo); il rispetto della cultura d’origine e infine l’inserimento in attività extrascolastiche. Secondo Morin (2000, p. 106) i tratti essenziali dell’insegnante dovrebbero essere:

  • fornire una cultura che permetta di contestualizzare e globalizzare 
  • preparare le menti a rispondere alle sfide alla conoscenza umana
  •  preparare le menti ad affrontare l’incertezza 
  • educare alla comprensione umana fra vicini e lontani
  •  insegnare l’affiliazione
  •  insegnare la cittadinanza terrestre come comunità di destino dove tutti gli umani sono posti a confronto con gli stessi problemi.

Ci deve essere dialogo e relazione tra culture, affinché ognuno sia accettato: nella scuola il bambino deve essere accompagnato e inserito nella nuova società, attraverso lo scambio culturale e progetti didattici che gli offrano le stesse opportunità degli alunni autoctoni. Oltre all’analfabetismo culturale, come afferma Massa (1997), c’è un “analfabetismo sentimentale” che la scuola deve contrastare. 
                                                                                                          
Per quanto riguarda la prima fase d’inserimento, è importante che all’alunno straniero siano presentate le regole della scuola, sia quelle esplicite che quelle implicite, ed egli deve essere aiutato a svolgere le attività e le routine scolastiche. Le strade seguite dalle singole scuole sono molto diverse, dipendenti da variabili come: le risorse a disposizione del territorio, le intese con gli altri enti, l’aiuto di esperti specifici. Alcune scuole hanno cambiato molto la loro didattica e l’impianto organizzativo. Altre hanno unicamente delegato il “problema” ai mediatori culturali. In altri casi ancora, addirittura si è fatto finta che non ci fossero bambini stranieri. Responsabilità, delega, negazione o viceversa drammatizzazione del problema: sono alcune delle risposte tipiche nei confronti del problema “immigrati” (Favaro, 2003).   
Gli insegnanti molto spesso non hanno conoscenze e strumenti adeguati per favorire l’integrazione dei bambini stranieri. Essi da tempo chiedono che gli sia proposto un “modello” a cui fare riferimento per gli aspetti organizzativi, didattici e di valutazione. Il sostegno del mediatore interculturale, in molti casi, si è rivelato provvidenziale per sostenere l’insegnante nelle tematiche dell’intercultura e, nello stesso tempo, favorire l’intera classe. Essendo egli stesso immigrato può, meglio di qualsiasi altro, aiutare il bambino straniero a superare il suo spaesamento iniziale, inoltre può fornire informazioni alla famiglia immigrata circa l’organizzazione scolastica e ricevere notizie sulla frequenza precedente all’arrivo in Italia. 

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lunedì 9 aprile 2012

Disabilità... via le mani dagli occhi

 
Il concetto di salute è cambiato nel tempo.
Possiamo considerare la definizione di salute dell'OMS, elaborata a New York nel 1946, come il punto di partenza per una riflessione sul modo di intendere la salute.
Fino ad allora l'orientamento tradizionale di tipo sanitario legava il concetto di salute a quello di malattia, definendo appunto la salute come semplice "assenza di malattia". Oggi la salute viene vista come una condizione di armonico equilibrio funzionale, fisisco e psichico, dell' individuo dinamicamente integrato nel suo ambiente naturale e sociale" (A.Seppilli 1966). Anche la concezione di disabilità è cambiata nel tempo: essa non è più solo un atrributo della persona, ma un insieme di condizioni potenzialmente restrittive derivanti da un fallimento della società nel soddisfare i bisogni delle persone e nel consentire loro di mettere a frutto le proprio capacità (Commissione Europea, Delivering eAccessibility, 26/09/2002).

L'organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) nel 1980 distingue tra:
- menomazione: qualsiasi "perdita o anormalità a carico di una struttura o di una funziona psicologica, fisiologica o anatomica";
- disabilità: "qualsiasi limitazione o perdita (conseguente a menomazione) della capacità di compiere una attività nel modo o nell'ampiezza considerati normali per un essere umano".
-handicap: "condizione di svantaggio conseguente ad una menomazione o ad una disabilità, che in un certo soggetto limita o impedisce l'adempimento del ruolo normale per tale soggetto in relazione all'età, al sesso e ai fattori socio-culturali".

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sabato 7 aprile 2012

Benvenuti nel mio blog ...

 
Caro visitatore,
benvenuto nelle pagine del mio blog.
Il mio percorso di studi e i miei anni di attività lavorativa in ambito sociale, sia come libera professionista che come dipendente di diverse cooperative sociali e collaboratrice presso alcuni dipartimenti dell'ASL3 genovese, mi hanno aiutato a comprendere e a vivere in prima persona le necessità del nostro territorio.
Sono fortemente motivata a fornire il mio contributo per migliorare alcuni aspetti, spesso trascurati o considerati marginali,  che ritengo fondamentali quali:
  • l'inclusione sociale per i disabili 
  • il rilancio del ruolo della famiglia 
  • la creazione di politiche educative condivise.

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